Vivere o morire, bisogna scegliere
Questi ultimi quattro anni non sono stati clementi con me.

Nel 2021, vittima di un pirata della strada da cui ho cercato di proteggermi, sono stato condannato per colpa grave. Un’ingiustizia contro cui sono arrivato fino al tribunale federale, la massima istanza nazionale, e ho perso. Solo nella primavera di quest’anno ho dovuto affrontare un ritiro della patente di tre mesi come conseguenza.
Poi, nell’agosto 2022, c’è stato il licenziamento, anch’esso ingiusto. La ricerca di lavoro infruttuosa per 18 mesi, perché dopo i 50 anni e senza diploma, l’esperienza non conta. E anche perché ho un profilo molto atipico: non è facile capire cosa farsene davvero di me.
Nel 2023, mentre ero in malattia durante la disoccupazione, l’assicurazione per perdita di guadagno ha rescisso il contratto con pretesti capziosi… Un’altra ingiustizia. E naturalmente, a meno di essere milionari, sappiamo tutti che combattere contro un colosso assicurativo è una guerra di logoramento dal costo astronomico. Non ci ho nemmeno provato.
Infine, in questo 2025, mentre ero felice che finalmente mi venisse offerta una soluzione per le anche doloranti quotidianamente e che mi mettessero protesi a destra e sinistra, ho vinto alla lotteria dell’infezione nosocomiale, un’infezione da batteri resistenti contratta durante l’operazione, che mi è valsa una terza operazione e 3 mesi di antibiotici, senza alcuna garanzia che dei batteri non siano nascosti tra l’osso e la protesi e che si debba riaprire tra due anni per toglierla.
Così diverse volte, in particolare in questi ultimi quattro anni, mi sono posto la domanda: Vivere o morire?
I pensieri suicidi non sono quello che si crede. Tutti noi, prima o poi, abbiamo pensieri suicidi. Possiamo classificarli in due grandi categorie:
I pensieri suicidi passivi: Si tratta di quei pensieri fugaci che dicono « se non fossi nato, se non ci fossi, se sparissi, tutto sarebbe più semplice »
I pensieri suicidi attivi: Sono pensieri già più concreti: Si comincia a immaginare lo scenario, a pianificarlo, a prepararsi al passaggio all’atto
Non è tanto il tipo di pensiero che può preoccupare quanto la loro frequenza. Non tutte le persone che hanno pensieri suicidi passeranno all’atto, tuttavia ogni persona che è passata all’atto ha avuto pensieri suicidi. Sono il riflesso di una sofferenza, di un disagio profondo.
Ho avuto i miei primi pensieri suicidi a 14 anni, dopo una serie di schiaffi da staccarmi la testa da parte del compagno di mia madre. Ho preso un filo stellare che sapevo essere molto resistente, e l’ho stretto fortissimo intorno al polso, sperando che mi tagliasse le vene. Ma in realtà, fa male! Ho subito allentato la pressione, e ho pianto tutte le lacrime del mio corpo.
Nel corso della mia vita, ho passato più che altro il tempo ad avere pensieri suicidi passivi, a dirmi, nei momenti più difficili, che tutto sarebbe stato così più semplice se non fossi esistito. Il passaggio all’atto non è mai avvenuto, bloccato dalla paura di soffrire, e probabilmente da quella di far soffrire gli altri.
Da allora, ho acquisito esperienza, ho sviluppato una comprensione molto approfondita di me stesso e del mio rapporto con gli altri, e ho sviluppato la capacità di prendere le distanze. Anche nei momenti più devastanti come il mio licenziamento del 2022, quando sono rimasto 10 giorni a letto con crisi d’ansia, riesco a dirmi: « È passeggero. Presto andrà meglio. Può solo andare meglio ».
Quando faccio il bilancio dei numerosi traumi, di tutte le ingiustizie che ho attraversato, scopro di aver fatto una scelta.
Fondamentalmente, abbiamo due scelte, due strade di fronte alle vicissitudini della vita: Vivere o morire
Ho preso coscienza di aver scelto di vivere. E questo mi mette al riparo dal passaggio all’atto, perché qualunque cosa accada, non ho voglia di morire. È probabilmente ciò che spiega la mia straordinaria resilienza. Vivere o morire, bisogna scegliere.
In realtà, tutto è iniziato nel 2012, quando durante una passeggiata alla FNAC, mi sono imbattuto nel libro di Christel Petitcollin « Je pense trop, comment canaliser ce mental envahissant ». Mi è letteralmente saltato tra le braccia. Un titolo decisamente appropriato, che mi ha messo sulla strada del mio alto potenziale. È stato in quel momento, riconoscendomi in quegli scritti, che ho capito di non conoscermi. E questo mi ha reso curioso.
Da allora, ho approfondito l’argomento… L’argomento? Sono io. Io, e il mio rapporto con gli altri e con il mondo. Ho scoperto di aver avuto una carriera totalmente atipica, grazie a un CFC ottenuto attraverso la validazione dell’esperienza acquisita. Poi nel 2017, dopo un test del QI in piena regola, ho scoperto che il mio era una deviazione standard sopra la media: abbastanza da vivere molta amarezza e rimpianto, dicendomi « avrei fatto meglio a studiare… » o « se solo fossi stato incoraggiato », e altri rimpianti inutili.
Ho scoperto il mio ADHD nel 2021, che il mio licenziamento del 2022 mi ha spinto a esplorare, studiare, comprendere meglio. Ho persino fatto una diagnosi di autismo, che però si è rivelata negativa. E infine, alla fine del 2024 ho compreso il concetto di disturbo da stress post-traumatico complesso, una condizione legata a un accumulo più o meno importante di traumi nel tempo, come ad esempio il bullismo scolastico o domestico, la violenza domestica, il mobbing lavorativo, e così via. Nel mio caso, sono state la violenza e il bullismo nell’infanzia e nell’adolescenza a creare il terreno per un’ansia sociale permanente di cui ho preso coscienza solo il mese scorso, nel luglio 2025.
Scrivendo questo articolo, ho l’impressione di lamentarmi, di fare del vittimismo, eppure sono fatti. Fatti che condivido, perché come molti altri, sono un professionista del masking, quella tendenza inconscia ad assumere il ruolo della persona solida, sicura di sé, quella verso cui ci si rivolge naturalmente nei momenti difficili. Un automatismo così ben rodato che nessuno potrebbe mai immaginare la sofferenza che nasconde. Sono diventato, senza volerlo né rendermene conto, quel pilastro verso cui gravitano coloro che cercano un appoggio. E tutto questo, tutto quello che ho vissuto, tutto quello che sento quotidianamente, non si vede. Il masking sarà peraltro oggetto di un prossimo articolo.
Insomma. Vivere o morire, bisogna scegliere. E io ho scelto di vivere. Ogni esperienza, per quanto dolorosa, ogni diagnosi, mi hanno portato pezzi di risposte, tessere di un puzzle così grande e complesso che è raro poterne comprendere l’immagine globale in tutta una vita.
Vivere o morire, bisogna scegliere, e io ho scelto di vivere perché oggi, con le risposte che ho, sono ottimista. Oggi ho materiale su cui lavorare, per poter affrontare il futuro con più serenità e lucidità. Ciò che mi motiva è constatare la capacità che ho di influenzare positivamente le persone che frequento, a volte sconosciuti durante una passeggiata nel bosco, a volte persone care che non avevano ancora certe risposte utili per dare un senso.
E siccome ho scelto di vivere, faccio tutto il possibile perché questa vita sia il più equilibrata possibile, tra sofferenza inevitabile e gioia indispensabile.
Se anche tu, lettore, pensi a volte, forse spesso, che la vita sarebbe più semplice senza di te, poniti questa domanda: Cosa hai scelto? Vivere o morire?